L’ultimo aprile bianco
Pubblicato: 30 aprile 2020 Archiviato in: Una poesia al giorno | Tags: Giuseppe Conte 1 Commentoa Luciano Anceschi
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger di folle
di voci…
E. Montale
Interminabile era la carovana e interminabile la ricerca. Come in un miraggio le lucenti pepite d’oro erano sempre davanti a loro. Guadarono paludi velenose, perforarono montagne, attraversarono sabbie ardenti, costruirono ponti naturali e artificiali, eressero città nel giro di una notte, compressero il vapore, imbrigliarono cascate, inventarono la luce artificiale, sterminarono microbi invisibili, scoprirono come spostare merci senza toccarle né muoverle, crearono leggi e codici in tal numero che orientarsi in mezzo a loro è più difficile che per un marinaio contare le stelle. A qual fine, a qual fine? Chiedetelo all’indiano che siede e osserva, che aspetta e prega per la nostra distruzione.
H. Miller
Aprile che ritorna e che consuma nei
giardini di ginestre e di acanti, nei
voli di passeri invisibili e nei calendari
aprile che sgretola che versa dalle tiepide
foci le nuove nuvole – sulle
sue carte antiche ridisegna
le rotte per le mille chiglie dorate – che
si posa in questa piega della cadente
Europa su scalinate bianche palmizi e acquitrini, che
mescola i ricordi e i desideri, fu detto, e dà
il mal di capo. Ma ora flotte muovo-
no senza aver mai toccato porti, alzano
vele galeoni volanti, non sanno che
bandiera battono: sconosciuti traversano
– non hanno più piedi del vento, degli scirocchi – le
piazze, le automobili in sosta, i palazzi in
fila le porte dei caffé aperte i pome-
riggi i volti degli uomini e cupole
grigie: i cani abbaiano dai cancelli.
Abbiamo scavato le montagne, gettato i ponti, che
cosa sarà domani di noi? Aprile sa
ritornare, ora consuma, imbeve i giorni come
l’acqua fa della sabbia morta spinge i
cespugli di margherite ad affiorare e alzare
fitte ingigantite corone, oggi le ho guar-
date io che non posso più crescere, io oggi, io
sguardo, io pietra, non ancora e già pietra, che
dovrò imparare a tornare e non
sarà facile, e dovrò uccidere, forse: dovrò
non saper guardare: fluisce, distrugge e
dona il dio zoppo del sole, i suoi diadochi, i
diademi. Aprile che non è contempo-
raneo, che sulle sue carte antiche ridi-
segna le rotte per le mille chiglie di
fiori «non posso più, c’è fame
di vita, di sorrisi da spendere, di gioia»
che uccide le madri, diventano di sale e
sin dai tempi dei vulcani imperanti ruba al
seme i futuri, sa che brucia, che è lava, che
diventa il mare di meduse, io medusa, quello
prima che il mattino fosse acceso ed era
sempre il mattino, io mattino, prima che
amare fosse amare in due, amare il dio, io
dio, fare seccare gli alberi, spegnere i fischi i
flauti che si dovevano suonare e
distruggere
«E intanto i nostri desideri ci cercano
spietatamente dentro i marciapiedi affollati»
aprile lungo i fuochi del viale Sarca, di via Arbe, aprile
che è aprile, che fende sopra i
volti le labbra e le ciglia, che sgretola
che a folate fa praterie dove erano i palazzi in
fila laghi dove in montagnole si stipavano i
rifiuti, aprile che è il poema, che tradisce,
che ci dona canoe e cavalli veri
mentre si muore: che getta gli occhi sui davan-
zali: crescono improvvisi i fiori dei ciliegi, dove
l’erba è a ciuffi schiacciati e i lunghi ghiacci sono
sciolti il verde vaga come un serpente: le
labbra sono umide ora, ora le ciglia tremano,
volano e cadono gli sguardi, si seppelliscono nelle
crepe dei muri: il piacere è debole
«ora tra sconosciuti ci si potrebbe amare per le
strade, venire insieme» è perdere, è tornare dove non si
può tornare: mettere i diademi: non vo-
ler più avere né essere: è il richiamo
delle conchiglie, dei corni, delle sirene
prima del mondo: il richiamo dei gufi dal
ciuffo «hu hu, e he tha!… da vaste
lontananze tu senti il grido del papavero
selvaggio che vuole sbocciare»: il sangue: mani
tese ad attendere la pioggia sono già piogge, i
piedi alti sugli alluci fradici: non
amare, non sapere, non saper
guardare. È già aprile, ancora un aprile
bianco
I galeoni stranieri veleggiano verso queste
rive affondate dalle profezie, non
parlate: sono le pietre ad avere l’anima, le voci
di pietre d’oro, delle montagne d’oro: un
canto c’è ancora oltre il vento che
rovina tra la barriera delle palme lucide e polve-
rose: un sogno fiorisce ancora in basso dove
non si poteva credere ad altre fioriture, un
pino marittimo piegato da tempeste
arcaiche generò le albe: le albe le
danze: non parlate di questo aprile: aprile che è il
poema, che tradisce, che ci dona
canoe e cavalli veri mentre si muore:
fluisce distrugge e dona il sole, i suoi diadochi, i
diademi: io per imparare a morire: imparare a
ridere occorre ora, a distruggere, e a
tornare
Giuseppe Conte (Imperia, 1945), da L’ultimo aprile bianco (Società di Poesia, 1979)
La cavalletta sulle scale
Pubblicato: 26 novembre 2019 Archiviato in: Una poesia al giorno | Tags: Giuseppe Conte Lascia un commentoNon fu empio il mio piede: si fermò
in tempo per non cancellarti, cavalletta.
Non so da che cosa ti avvertii:
so che passò la fretta di rientrare
a casa: e mi curvai, a guardarti:
eri regale, delicata, assente
come nessuna donna è: muta
come un monile, ma insistente
tentavi lo scalino troppo alto
per te. Ti avvicinavi con delle zampe
che parevano passive, meccaniche, tanto
erano oscillanti e filiformi, e cominciavi
di sbieco la risalita, con una specie
di fatica, di impassibile
tremore. Più lunga e magra del mio
indice e chiara, color avorio, è
possibile? Salivi e poi tornavi
giù, padrona appena dei tuoi movimenti;
e io sempre più curvo sino a guardarti
negli occhi lucenti, nerissimi.
Eri forse così vecchia, o l’autunno
iniziava a poggiare su di te
la sua mano che fa freddi,
fragili? Ma perché volevi salire
quello scalino, perché ti affaticavi, per
raggiungere la cima, dove c’è
la mia casa, e perché mi hai fermato,
per dire cosa?
Giuseppe Conte (Porto Maurizio, 1945), da Le stagioni (Rizzoli, 1988)