Dentro il recinto

Parlo con le persone quando ci sto davanti –
dovrei dire. Ma non funziona così.
Me lo dico, me lo ripeto, cerco sempre
(quasi sempre) di prepararmi a questo.
Quando ci sto davanti le parole vanno a caso,
o scivolano in disparte
e non ne vogliono sapere di darmi una mano.
Nella testa le vedo prima degli occhi:
si accalcano babeliche come pecore sporche
al cancello del recinto quando uno si avvicina.
Si ammassano e si calpestano,
hanno pupille sbieche e nere
rassegnate e piene di paura
smarrito il senso di ciò che fanno,
di ciò che faranno una volta fuori,
di ciò che dovrebbero e vorrebbero fare.

E allora sto col mio concetto frantumato,
calpestato senza una vera reazione da pecore sporche.
Non devo fare una bella impressione.
Alla fine non parliamo di niente. Accettiamo con noia
la delusione, la solita.
Nemmeno immaginare di tenere in bocca
un pochino il suo pene, tiepido e floscio,
o in battuta di lingua le labbra della sua vagina
aspra e un po’ fredda, mi aiuta a capire;
se non un breve sofisticato brivido
a restituirmi chi ho di fronte, sentire
di cosa abbiamo voluto parlare, di cosa abbiamo
parlato effettivamente, cosa di me avrà voluto,
se mai ci rivedremo, se saremo dimenticati.

Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), inedito.


Piero Simon Ostan consiglia Igor De Marchi

il mutuo 

Sto pagando un mutuo di quindici anni
per l’appartamento in cui vivo.
Ho sottoscritto una polizza vita
di vent’anni. Il mio promotore
finanziario di fiducia
mi sottopone ogni quindici giorni
vantaggiose opportunità
di investimento a lungo termine.

Eppure stento a immaginarmi allora
brizzolato e limpido,
circondato da nipoti
gioiosi e figli amorevoli
come vuole la brochure
dell’assicurazione.

Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), da Resoconto su reddito e salute (Nuova Dimensione, 2003)

Tutte le volte che mi capita di rileggere Resoconto su reddito e salute mi blocco sulla poesia il mutuo che ho deciso di proporre.
In questo testo irrompe fin dal titolo l’impoetico, De Marchi giunge a esiti di srilicamento estremo già dal primo verso e, attraverso un abbassamento del tono verso la prosa, fotografa senza filtri, senza alludere nulla, il nostro tempo. Sono versi che ci inchiodano alla realtà in un atmosfera pervasa da una pungente ironia che ci mostra ancor di più il nostro essere ridicoli.
Forse il bloccarmi su questo testo non è solo dovuto al fatto che questi versi sono emblematici di un modo di intendere la poesia che mi affascina e sento vicino, ma anche perché il poeta, alla fine, ci ricorda che a questo stato di cose, da lui stesso riferite, una strada diversa c’è. (Piero Simon Ostan)