Non si libera dagli aghi, se ne veste

Non si libera dagli aghi, se ne veste.
Vive nell’ultima stanza – ogni volta
sta varando il vascello con lo sguardo
nella fontana fuori, dove la potrebbero
condurre ma non vuole, dai sette anni
mentali e non mentali non si strecciano
il colore cenere – la testa, gli occhi.

Non possono trovarla assiderata.
Piuttosto contare sul balcone, che sarebbe
il margine alfa della storia, da dove
la contesta e può ascoltarla; due
fibbie alle scarpe slacciate, rientra
sempre e cammina sempre scalza contro
la parete. Lì sta bene. Lì – dice alla fine
della casa – mi riconoscerete.

Chi manca è più nitido,
si prende la ragione

Marco Giovenale (Roma, 1969), da Shelter (Donzelli, 2010)


(altra ↔ foto-)

Non rappresentato, svuota
le scale di pietra dai viticci di corda,
le scale dove era salito
piccolo, e per pensare ci passeggia –
modulate bene, dei paragoni, e rimane
con la sedia vuota, il vimini o il cedro
dove il padre aveva pressato il tabacco
e i figli il punto di fuoco più povero
e i generati ai loro turni nella fabbrica,
i cuccioli allenati, a divorare
sé – altro.

Manca il gas da quattro anni,
le chiocciole scendono al frusto
dell’intonaco, le scoppature
fatte viola nello sviluppo cyba.

Non tornate indetro: dal vetro
dell’abbaino, il giorno ha smesso.
Perdereste il tempo, senza interruttore.

Rovesciato il baule lì dei morsi
pezzi di giocattoli, non è rimasta cosa
se non, incollate ai muri a secco, ombre –
quando non guardi si spostano

Marco Giovenale (Roma, 1969), da Shelter (Donzelli, 2010)