Giovanni Turra consiglia Luciano Cecchinel

Paese

Paese rùspego de burigòt,
de onbrìa umida e petadiza,
ingatedamènt cròt
đe pòrteghi e cortivi
fin a tariói alti stusadi,
ndove che mi vae a scur,
rùmola de la piera,
ndove che fraze,
zinìs-cio de calzina,
ndove che vae in zerca strac de udor vèci,
scròc, susuri, lumin…
pèrs in ti, no pose, no vui scanpar,
inprésteme ‘n ciaro, an ciaro sol
te sto scur tendro e fis,
sol lèđer al me nàser
te la to mort,
al me morir tel to ultimo vìver,
te la luna smarida đe le piere,
paese meo s-cèt de masiere.
Luciano Cecchinel (Revine-Lago, 1947), da Al tràgol jért (Scheiwiller 1999)

Paese. Paese scabro di vicoli diroccati, / di ombra umida e attaccaticcia, / groviglio malato / di portici e cortili / fino a piccoli altari alti spenti, / dove io vado al buio, / talpa della pietra, / dove rovisto, / muschio di calcina, / dove vado alla ricerca stanco di odori vecchi, / crocchi, sussurri, lumini… / perso in te, non posso, non voglio fuggire, / prestami una luce, una luce solo / in questa oscurità tenera e fitta, / solo leggere il mio nascere / nella tua morte, / il mio morire nel tuo ultimo vivere, / nella luna sbiadita delle pietre, / paese schietto di macerie.

Nel descrivere i luoghi intorno a sé, nello spazio del suo orizzonte visibile e vivibile, Luciano Cecchinel ragiona sul senso del proprio essere lì e non altrove. E tuttavia, pur avvertendo il proprio ambiente con forza appassionata, quale forma d’identità cui non poter rinunciare senza essere cancellato dal piano della storia, vi sperimenta fin da giovanissimo una devastante impossibilità di certezze. È questa la posizione fondamentale occupata dal poeta e costantemente ripetuta nella sua opera, in dialetto e in lingua: l’orrore di camminare su un suolo cavo e pieno di agguati, il continuo avvertimento d’una regione dell’essere tanto più nascosta quanto più prossima a noi. Nel testo che segue, tratto da Al tràgol jért (Milano, Scheiwiller 1999), la sua raccolta d’esordio, Cecchinel sfrutta le potenzialità fonico-ritmiche della parlata di Revine-Lago, mai tentate prima, affidandosi alla capacità generativa di quei suoni: l’uso insistito dei monosillabi e delle tronche in consonante, speculari alla natura scheggiosa dei suoi materiali, rende al meglio l’angosciosa difficoltà dell’esistere e del dirsi. (Giovanni Turra)


dentro una piccola luce

per la sera immensa del Midwest
dentro una piccola luce,
stanca incerta stella,
il padre, la madre e sottovoce
il loro minutò sì,
la bambina che saltella
attorno alla mensa pronta
e, esile uccello imitatore, canta
yes daddy, yes ma…

lei, pegno di suoni ignari
come la bandiera dai nuovi colori
nella casa dove il sì
si spegne per la sua dolce voce
– yes daddy, yes ma –
come la piccola luce
che ormai sfila, incerta stella,
si perde nel buio, nel nulla
della notte immensa del Midwest

Luciano Cecchinel (Revine-Lago, 1947), da Lungo la traccia (Einaudi 2005)