Maria Luisa Vezzali consiglia “Orpheus” di Margaret Atwood
Pubblicato: 7 marzo 2013 Archiviato in: Una poesia al giorno | Tags: Margaret Atwood 4 commentiyou walked in front of me,
pulling me back out
to the green light that had once
grown fangs and killed me.
i was obedient, but
numb, like an arm
gone to sleep; the return
to time was not my choice.
by then i was used to silence.
through something stretched between us
like a whisper, like a rope:
my former name,
drawn tight.
you had your old leash
with you, love you might call it,
and your flesh voice.
before your eyes you held steady
the image of what you wanted
me to become: living again.
it was this hope of yours that kept me following.
i was your hallucination, listening
and floral, and you were singing me:
already new skin was forming on me
within the luminous misty shroud
of my other body; already
there was dirt on my hands and i was thirsty.
i could see only the outline
of your head and shoulders,
black against the cave mouth,
and so could not see your face
at all, when you turned
and called to me because you had
already lost me. the last
i saw of you was a dark oval.
though i knew how this failure
would hurt you, i had to
fold like a grey moth and let go.
you could not believe i was more than your echo.
Margaret Atwood (Ottawa, 1939), da Interlunar (Oxford University Press, 1984)
tu camminavi davanti a me
mi trascinavi di nuovo fuori
alla luce verde che un giorno
aveva messo zanne per uccidermi.
io ero obbediente, ma
torpida, come un braccio
indolenzito; ritornare al tempo
non era mia scelta.
ormai abituata al silenzio
come una cosa tesa tra noi
un sussurro, una fune:
il mio nome precedente,
ben tirato.
tu avevi le tue vecchie catene
con te, amore potresti chiamarle,
e la tua voce di carne
davanti agli occhi tenevi fissa
l’immagine di come volevi
mutarmi: viva di nuovo.
era quella tua speranza che mi spingeva a seguirti.
io ero la tua allucinazione, in ascolto
e fiorita, e tu mi cantavi:
già nuova pelle si stava formando su di me
dentro il luminoso sudario di nebbia
dell’altro mio corpo; già
si riformava polvere sulle mie mani e avevo sete.
io riuscivo a distinguere solo i contorni
della tua testa e delle spalle,
nere contro la bocca della caverna,
quindi non ho potuto vedere affatto
il tuo viso, quando ti sei voltato
e mi hai chiamato perché già mi avevi
perduta. ultima cosa
di te, un ovale scuro.
pur sapendo quanto ti avrebbe ferito
questo fallimento, ho dovuto
chiudermi come falena grigia e cadere.
tu non riuscivi a credere che ero più della tua eco.
(Traduzione di Maria Luisa Vezzali)
Il mito della discesa all’Ade di Orfeo è così ambiguo nelle sue prime formulazioni che inevitabilmente ha stimolato infinite rivisitazioni tra i moderni, non solo in poesia (Browning, Valery, Rilke, Trakl, Doolittle, Sitwell, Benn, Bachmann, Merini…), ma anche in racconti (Pavese, Calvino, Bufalino…), in testi teatrali (Anouilh, Williams…), in opere musicali (Offenbach) e persino film (Camus e Cocteau, per tutti). Qui la più importante scrittrice canadese lo rilegge in chiave di genere, dando un’inequivocabile interpretazione del fallimento di Orfeo con l’ultimo verso, non per nulla isolato dal resto del componimento: il poeta non è riuscito a riportare l’amata dal mondo dei morti perché non era mai riuscito a vederla – neppure da viva – come una persona.
E’ interessante notare come il testo sia costruito sulla contrapposizione dei pronomi you/I e nemmeno una volta sia menzionato il “noi”, segno evidente della distanza emotiva e sostanziale tra i due attori del dramma. Lui è caratterizzato da verbi attivi (walk, pull), lei da verbi che indicano passività (follow/fold, allitteranti); lui ha «voce di carne», lei è un’allucinazione incorporea. A Euridice non interessa più la vita, di cui conserva solo sensazioni negative (la luce verde dotata di zanne che l’ha uccisa, ovvia metafora per il serpente che l’ha morsa, la polvere sulle mani, la sete…), ma a lui non interessa davvero la donna (cfr. «love you might call it», corsivo mio), quanto un orecchio privilegiato in ascolto (cfr. «listening and floral»), la forza dell’ispirazione, la possibilità di attingere di nuovo alla sorgente profonda del canto. Abituato a trascinare con la sua voce creature animate e inanimate, Orfeo non si chiede se Euridice vuole essere recuperata e così la perde.
La poesia è un’interessante polemica con la tradizione lirica maschile sin dai tempi dei trobadori, che ha trasformato la donna in un “fantasma di Eros” (come spiega insuperato Agamben, in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi 1977) e l’amore in una sorta di delirio immaginativo: «non un corpo esterno, ma un’immagine interiore, cioè il fantasma impresso, attraverso lo sguardo, negli spiriti fantastici, è l’origine e l’oggetto dell’innamoramento». Bene, il fantasma – alla fine, dopo nove secoli – si è sottratto (let go).
Maria Luisa Vezzali