Roberto Cescon consiglia “Che cos’è la solitudine” di Mario Benedetti
Pubblicato: 27 marzo 2013 Archiviato in: Una poesia al giorno 2 commentiHo portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
Mario Benedetti (Udine, 1955), da Umana gloria (Mondadori, 2004)
Lo so, è triste, anzi è terribile il fatto di cronaca nera che chiude la poesia. Lo dice anche Benedetti: un’oscenità grande. Ma non ho scelto questa poesia perché rappresenta un autunnale spaccato di solitudine al parco, come un fatto di cronaca cui giunge l’eco terribile del foglio di giornale. L’ho scelta perché mi piace la precisa scelta stilistica di questo poeta, che scava nel solco dell’essenzialità. Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi: / un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota. Si deve sottrarre tutto ciò che non serve nella poesia, in modo che rimanga solo l’immagine netta, pulita. Il risultato di questa operazione qui è estremo, poiché questa scena quotidiana, il materiale di scarto delle parole quotidiane, diventa quasi irriconoscibile. È come se Benedetti facesse avvicinare il lettore alle cose con una lente di ingrandimento per fargli vedere che in realtà ogni parola è inchiodata, irrigidita. Perché noi siamo ancorati alle cose, sebbene pungolati di continuo dai dubbi sul senso di tutto. Che cos’è la solitudine. Alla fine i dubbi e le cose rimangono, ma almeno ci abbiamo provato a scardinarli, con le parole.
Roberto Cescon