Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi / antologia, Mario Benedetti
Pubblicato: 23 ottobre 2014 Archiviato in: Una poesia al giorno | Tags: Mario Benedetti 1 CommentoMandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.
Mario Benedetti (Udine, 1955), da Tersa morte (Mondadori, 2013)
Questa poesia nasce dalla brutale esperienza della morte di un fratello. Qui è il dolore che parla e l’amara consapevolezza che il corpo che ci ospitò viventi, dopo la morte, si riduce ad una cosa inerte, ad “una cosa inservibile” (v. 6). Tersa morte è un libro dolorosamente autobiografico, ma al contempo in ricerca di un significato universale. La morte, pur essendo un’esperienza comune e diffusa, è perlopiù rifiutata e respinta: messa al bando dalla comprensione, non la vogliamo vedere, non la vogliamo pensare. Sembra che tutto cospiri ad illuderci che siamo eterni, che non moriremo mai: presupponiamo una continuità che la vita in realtà ci nega. Perché ci illudiamo? Perché abbiamo bisogno di questa illusione di eternità per vivere? Alla cruda luce di questi enigmi, Benedetti sembra volerci dire che, se la poesia ha ancora un senso, essa ha il compito della verità: non può far finta che il dolore non esista, che la morte sia una favola. La poesia, allora, può essere il mezzo di un’esplorazione ai limiti della vita, un modo per capire meglio i bordi del nostro vivere e cosa fa sì che siamo umani. Proprio dal confronto con questo tema centrale della cultura, la sua poesia trova uno stile che si fa più esplicito, meno lacerato sintatticamente, più terso, ma non meno denso e carico di energia espressiva. In questa poesia, paradossalmente, la lingua mostra una vitalità ritmica straordinaria: il respiro si fa accelerato, ci sono anafore, polisindeti e frasi nominali che incitano a vedere e a capire cosa si sta vedendo attraverso le parole. Il testo è in grado di farci rivivere il dolore e ci costringe a pensare ciò che appare impensabile e che non vorremmo essere costretti a pensare. La poesia è anche questa sfida.
(Tommaso Di Dio)
questa idea dell’antologica di un poeta mi sembra vincente! Grazie per la lettura di Mario Benedetti.