N.

Continuava a scrivere in una forma ossessiva,
mi guardava, e poi (sopra a tutto)
le accensioni a intermittenza, gli sguardi abbassati
mentre mi accanivo su me stesso.
“Osservami”, mi dicevo,
gli occhi che camminano e le cicale
che gracchiano sopra la corrente,
oppure più in là, sebbene fosse impensabile,
dove qualcuno controlla tutti i messaggi
e li trascrive, e le forze che si concentrano
sui marciapiedi, fra passo e passo,
svelano altri dettagli, più veri, dolorosi.
Ma questo cammino: le balze, i querceti
i trabatelli altissimi e profondi, era sempre
un andare-oltre e cadere, un farsi
del male: non c’era solidità né crescita
nella progressione, non era progressione. C’era tutto
un baratro da attraversare, e da capire.

Mi sono perso d’animo e ho abbandonato
la vitalità, scarna ma sempre vitalità
“vi-ta-li-tà” ripetevo. Sono
diventato astioso: “la soluzione più degna”
forse, è vero, eppure evitabile, così
che oggi ricordo poco se non gli sguardi dall’alto,
i più crudeli, e le mani, strette, venose
sempre in anticipo sul niente, e il sorriso crudele.

Ecco la soluzione, non era
era il tiglio sul marmo di casa, l’acero splendente
ripulire le foglie a una a una, accompagnarle
con cura al cassonetto. Finalmente
eravamo in due, eravamo gentili.

Pietro Cardelli (Borgo San Lorenzo, 1994), da Quattordicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos Y Marcos, 2019)



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