Dentro il recinto

Parlo con le persone quando ci sto davanti –
dovrei dire. Ma non funziona così.
Me lo dico, me lo ripeto, cerco sempre
(quasi sempre) di prepararmi a questo.
Quando ci sto davanti le parole vanno a caso,
o scivolano in disparte
e non ne vogliono sapere di darmi una mano.
Nella testa le vedo prima degli occhi:
si accalcano babeliche come pecore sporche
al cancello del recinto quando uno si avvicina.
Si ammassano e si calpestano,
hanno pupille sbieche e nere
rassegnate e piene di paura
smarrito il senso di ciò che fanno,
di ciò che faranno una volta fuori,
di ciò che dovrebbero e vorrebbero fare.

E allora sto col mio concetto frantumato,
calpestato senza una vera reazione da pecore sporche.
Non devo fare una bella impressione.
Alla fine non parliamo di niente. Accettiamo con noia
la delusione, la solita.
Nemmeno immaginare di tenere in bocca
un pochino il suo pene, tiepido e floscio,
o in battuta di lingua le labbra della sua vagina
aspra e un po’ fredda, mi aiuta a capire;
se non un breve sofisticato brivido
a restituirmi chi ho di fronte, sentire
di cosa abbiamo voluto parlare, di cosa abbiamo
parlato effettivamente, cosa di me avrà voluto,
se mai ci rivedremo, se saremo dimenticati.

Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), inedito.


“Solo compenso a questa perdita / non ti sia dato conoscere i limiti precisi / di ciò che hai perso”

“Sta zitto. Tu parli solo per dimenticare.”
Ma non c’erano muri
e le frasi scomparivano insieme al vento.
“Lo sai, il mio nome
significa: io sono cambiata”
e poi non c’è silenzio, dice, se uno si accorge,
non c’è amore
alla fine di un ricordo.
È scomparsa l’ombra delle case
in questo esterno di autocarri e di calce
e lo spazio è troppo
perché le parole siano lì.
“Non l’hai inventata tu, la gioia, non sei
abbastanza intelligente… tu che ti disperi
perché ciò che fai diventa…”
E questi alberi, sempre più radi
le grandi strade a nord della città
la nebbia che sta coprendo tutto, i passi
“ma così non potrai a lungo…”
e le mani sono umide, come l’erba, oltre la strada
e ferme, non si toccano, non saranno mai
sentimentali.
“Non hai fatto che perdere tempo. Parti,
una volta tanto,
da quello che ti resta.”

Milo De Angelis (Milano, 1951), da Somiglianze (Guanda, 1976)