Orchidee all’amata

Orchis morio, ophrys fusca, gymnadenia,
neottia nidus avis, orchis simia,
dactylorrhyza maculata e fuchsii,
serapias lingua e vomeracea e tante
altre dai nomi e dalle fogge strane
dischiudono corolle non vistose,
simili a vulve femminili o in forme
bizzarre, come d’elmo, con speroni,
con rilievi, con creste, con puntini,
purpuree, bianche, maculate, rosa,
verdastre, gialle, brune, quasi nere,
con placche blu, con strani geroglifici.
Per riprodursi attirano gli insetti
imitando una femmina di bombo,
d’ape o di vespa, oppure col profumo
acuto che diffondono la sera,
o ancora coi colori variegati
e col nettare in gole spalancate.
Ognuna ha un solo insetto che può fare
il miracolo. E poi non è finita:
occorre ancora, perché il seme germini,
che presti un fungo le sue ife e se
prevale il fungo quel germoglio muore,
ma muore senza il fungo. Ognuna ha il suo
terreno: acido, basico, arido, umido,
argilloso, leggero, di pineta,
di quercia, di castagno, di faggeta.
Impossibile farle germogliare
e fiorire a comando; non le trovi
né in giardini né in luoghi coltivati.
Stanno in luoghi selvaggi e abbandonati,
nel sottobosco, in magri pascoli, anche
sul bordo delle strade, ovunque l’uomo
non le disturbi. Sono le orchidee
nostrane, quasi ignote, senza i fasti
letterari di quelle tropicali
(la cattleya di Proust), e l’apparire
ne è difficile, raro ed inatteso.

Silvia Rizzo (Roma, 1946), da Orchidee all’amata (Edizioni di Storia e Letteratura, 2015)

-consigliato da Claudio Pasi