Dina Basso consiglia Edoardo Zuccato

La lüs da bon cumand l’è un gran pitur
e la fa gió ritratt par tücc
a dumandàgh in daa manera giüsta
da lassà chì un retàngul da ricord.

Ma ti la machina vérdala no
’me i urévas i cassett di bisgiù;
pütòst pensa ai lastron da prea liscia
temé i lastar di foto che i geolugi
tiran föra ien da fossil, i pess
ca pâr di frasch ei frasch di pess,
e tütti insema hinn diventâ di sass
sü chì futugrafij c’ha faj ul scür.

Oh busch, oh mar di mort, mai mort dal tütt,
se i piant da prima hinn diventâ da sass
e sass e tera hinn diventâ di piant,
l’è ’l ciel ca l’è sen’ drê futugrafà
ul mar o ’l mar ca ’l futografa ’l ciel
temé ’l nagótt l’è ’l negativ dul mond
e dul nagótt ul negativ l’è Diu?

Edoardo Zuccato (Cassano Magnago, 1963),  da I bosch di Celti – Il bosco celtico (Sartorio edizioni, 2008)

La luce generosa è un gran pittore / e fa il ritratto a tutti / se lo si chiede nel modo giusto / di lasciarci un rettangolo di ricordi. // Ma tu non aprire la macchina fotografica / come gli orefici gli scrigni dei gioielli; / piuttosto pensa ai lastroni di pietra liscia / come lastre fotografiche che i geologi / estraggono piene di fossili, i pesci / che sembrano foglie o le foglie che sembrano pesci, / tutti quanti pietrificati / su quelle fotografie fatte dal buio. // Oh bosco, oh mare dei morti, mai morti del tutto, / se le piante di prima diventarono pietra / e pietra e terra diventarono piante, / è il cielo che non smette mai di fotografare / il mare o il mare che fotografa il cielo / come il nulla è il negativo del mondo / e del nulla il negativo è Dio?

Edoardo Zuccato è un poeta che scrive in dialetto altomilanese; propongo di leggerlo perché, a mio parere, è un dei pochi che riesce a dire tutto col dialetto: il reale, l’astratto, l’irreale e l’invisibile, sempre scrivendo testi composti, compiuti. Non è una cosa semplice, perché il dialetto, seppure possa dar voce ad ogni aspetto della vita, nasce inevitabilmente dalla concretezza, ed è facile che si resti imbrigliati in una poetica del “quotidiano forzato”. La poesia che ho scelto inanella interrogativi enormi e quasi indicibili, ma parte dalla certezza che il legame tra morte e vita accomuni tutti gli esseri. Non sappiamo se questo destino collettivo possa dirsi illuminato dal nulla o dalla luce di Dio; ma possiamo continuare a interrogarci in merito, provare a scrivere belle poesie. (Dina Basso)


Francesca Serragnoli consiglia Daniele Mencarelli

Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
Loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.

Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.

Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.

Daniele Mencarelli (Roma, 1974), da Bambino Gesù (Nottetempo, 2010)

Questa poesia per me è quello che è in questo momento che l’ho riletta. Un foglio di carta e parole che vanno a capo? Cosa c’è di vivo in questo? Non rivive in me come uno spirito che si appropria del mio corpo. Neppure io aggiusto la poesia per riscontrarne l’esperienza nella mia vita. Mi sto arrampicando sui vetri. Non c’è cartina al tornasole che misuri ciò che avviene nel lettore (il testo è immutabile). Che avvenga qualcosa è un fatto. Il problema è suscitare invidia in chi non sente niente. Ascoltiamo intanto il ritmo: gli accenti che battono il ritmo di una quasi filastrocca. L’apparente semplicità della sintassi s’intreccia con la gravità di alcune parole (mi riferisco ai “buchi”, al panorama carsico che si distende quasi infinito che ha in sé una similitudine solo suggerita: le doline, i buchi neri). Invece di cerchiare (mettere sul podio) i momenti più profondi del testo, il verso continua, come se niente fosse. Perché così è stato per il poeta. E noi ci siamo voltati con lui alla fine, nella memoria, e abbiamo visto, nuovamente. Scrivere di qualcuno o qualcosa è amare (specularmente odiare). Non dico niente su quel lavare, sul lucido del pavimento, sui buchi, sugli occhi opachi della suora, sull’oltre, sulla fermezza marmorea di “lì c’era solo un bambino che giocava”. Solo aggiungo: in questo testo la gioia e il dolore fanno scintille, cioè illuminano (anche i buchi neri). (Francesca Serragnoli)